Scritto da Barbara Monti
Il risveglio del femminile
Negli ultimi anni si è fatto strada un movimento globale di risveglio del femminile, di presa di coscienza del proprio potere e potenziale personale, di lotta interiore ed esteriore per il proprio posto in famiglia, nella relazione di coppia, nell’ambito lavorativo e all’interno delle istituzioni. Ci sono libri, video, e corsi di autostima che sostengono il risvegliarsi della dea, la consapevolezza dell’essere regine, la bellezza dei cicli corporei e fisiologici, il diritto alla sensualità e sessualità sacra e che incoraggiano le donne a riscoprire e manifestare quel “di più” che ognuna sa – o perlomeno sospetta – che ci sia dentro di sé, in termini di forza e saggezza, coraggio e indipendenza, dolcezza, passione e determinazione.
Questo fuoco vitale in rinascita è inarrestabile e non ci sono dubbi che sia l’unica direzione sana nella quale incanalare le energie, sia per la salute fisica, emotiva, mentale e spirituale delle donne stesse, sia per il benessere della società tutta e del pianeta, che senza la loro decisa e preziosa presenza – come si osserva chiaramente – non può sopravvivere né tantomeno fiorire.
Aspettare il permesso
Tuttavia, ci sono degli ostacoli. Ovviamente esteriori, sociali, legali, culturali, religiosi, economici… ma anche interiori, battaglie che ognuna si trova a combattere fra sé e sé. Voglio riflettere su uno degli ostacoli che vedo più spesso e riconosco in azione non solo dentro di me ma anche in tutte -sì, direi tutte – le donne che conosco: l’attesa del permesso.
Marianne Williamson nel suo splendido “Il valore di una donna” usa la metafora della donna in perenne bilico fra l’immagine gloriosa della regina e quella di schiava prigioniera; il carceriere è un mostro a tre teste: una rappresenta la cultura popolare, una il passato e una la nostra insicurezza. Non mi sembra esagerato aggiungere una quarta testa al mostro che ci tiene a bada: il permesso di essere se stesse.
L’autorità è maschile, da millenni. La vita delle donne, letteralmente, è stata nelle mani dei padri, dei mariti, dei figli maschi e degli uomini in generale da quando abbiamo memoria, e in molti luoghi e in molti modi ancora lo è. La cultura patriarcale si è presa il permesso, e ha insegnato alle donne a doverlo chiedere.
Si è presa non solo la libertà femminile, ma anche l’idea di libertà. E questo è molto più pericoloso.
Il valore di una donna: retaggi dal passato
Su che cosa è sempre stato basato il valore di una donna? Solo qualche accenno per non sottovalutare la cornice all’interno della quale si colloca l’immagine femminile, e non dimenticare.
Innanzitutto, la donna è stata a lungo considerata inferiore all’uomo: nel corso della storia sono state formulate svariate spiegazioni per questa inferiorità, avvallate dalla chiesa, dalla scienza, dai codici di legge, dalla medicina, dalle teorie psicoanalitiche e dai ruoli in cui la cultura patriarcale ha ritenuto utile e funzionale alla detenzione e all’esercizio del potere, relegare il mondo femminile. Queste menzogne spaziano dall’impurità del corpo, delle mestruazioni e del parto, alla mente e psiche deboli e volubili quindi incapaci di coerenza e stabilità, alla subdola arte seduttiva e tentatrice, all’incapacità di studiare e apparente impossibilità di praticare mestieri riservati ai soli uomini. Le donne sono state viste e trattate come oggetti da possedere e di cui disporre, la cui unica funzione era quella di mettere al mondo figli, possibilmente maschi. La loro sopravvivenza (fisica, mentale, economica…) dipendeva esclusivamente dai favori dell’uomo, a cui bisognava ubbidire e che bisognava compiacere. Una donna virtuosa, “brava” diremmo oggi, oltre a essere fisicamente bella secondo le mode del momento, doveva essere silenziosa, ubbidiente appunto, accondiscendente e accomodante. Disponibile, servizievole, altruista, gentile e quanto più possibile invisibile. Esserci quando è gradita o utile, non disturbare il resto del tempo. Capace di farsi da parte, ignorare i propri bisogni, essere molto attenta ai bisogni altrui e adoperarsi per accontentarli. Nel tempo il suo valore è stato determinato, oltre che dall’aspetto fisico sempre di massima importanza, dalla sua abnegazione e dalla propensione ad essere madre, una buona madre dedita alla cura dei figli. Dall’abilità nel gestire una casa in ordine, cucinare bene, occuparsi del benessere di marito e famiglia allargata e innumerevoli altri qualità, visibili e giudicabili dall’esterno, che le attribuiva un valore in base alla sua capacità di corrispondere ai valori a lei attribuiti. Maggiore il livello di perfezione, maggiore il valore. Maggiore il livello di abnegazione, maggiore l’approvazione. E quindi maggiore la sua sicurezza e possibilità di sopravvivenza.
Questo passaggio da un “ti dico io chi sei, chi devi essere e cosa voglio che tu faccia” a un “dì tu chi sei, chi vuoi essere e cosa vuoi fare” è una rivoluzione a tutti gli effetti; non richiede solo dei cambiamenti pratici e materiali, ma può avvenire solo se parte da un modo di pensare completamente diverso. Alle donne è richiesto di cambiare mente, occhi, voce e pelle; di dimenticare le limitazioni del passato e di crearsi un nuovo sistema nervoso, un nuovo sistema di pensiero e un nuovo modo di esistere. E di farlo non andando contro a qualcuno, ma incontro a se stesse.
Alla luce di tutto questo, è evidente che non sia un passaggio semplice per nessuno- né per il mondo esterno che si trova a guardare un’immagine della donna completamente nuova, né per le donne stesse che questa nuova auto-immagine la devono ricostruire da zero, senza riferimenti né incoraggiamenti. E poi farla diventare realtà.
Il dubbio uccide l’energia
Al giorno d’oggi, quando una donna vive la propria vita (sebbene in delle situazioni oggettivamente migliori, con diversi diritti conquistati e con possibilità maggiori rispetto a quelle delle proprie madri, nonne e perfino sorelle in paesi nemmeno troppo distanti da qui), questo dubbio di avere o meno il permesso di essere la donna che vuole essere e di vivere la vita che vuole vivere, la accompagna sempre.
Una definizione di autostima è la capacità di riconoscere il proprio valore intrinseco, come persona, indipendentemente da quello che si è capaci o meno di fare. Si tratta della profonda certezza di avere valore per chi si è, non per quello che si fa né per quanto ne viene riconosciuto dall’esterno.
Ma se, per definizione, il valore della donna è da tempo immemore basato su quanto qualche uomo con più valore, più potere e più autorità di lei ha stabilito di concedergliene, questa certezza vacilla. E vacilla, minando la propria autostima e fiducia in se stessa, ogni volta che quello che lei sente di volere, di decidere, di dire e di mostrare è differente da quello che finora ha definito la sua virtù e i suoi meriti. E, in ultima analisi, la sua importanza come persona.
Spesso, in questo percorso di risveglio e di presa di coscienza di sé, le donne tentano di esprimersi con maggiore autenticità e al tempo stesso non scontentare né scomodare troppo chi hanno intorno. Vogliono seguire con onestà i dettami interiori che le animano e rimanere “brave” agli occhi del mondo per paura di dover pagare un prezzo troppo caro per la propria libertà. Il giudizio ad esempio, la disapprovazione, l’esclusione. Allora aspettano. Attendono che arrivi dall’esterno, da quelle figure di autorità da sempre riconosciute come tali, il permesso di essere chi sono e di fare le scelte che decidono di fare. E quando non arriva, perché per la maggior parte delle volte questa autorizzazione non arriva, ecco che di nuovo mettono in dubbio se stesse, la propria voce e le proprie prese di posizione.
Se al mondo non piaccio, se gli altri non sono contenti di me, allora il problema sono io. Quello che faccio è sbagliato, quello che dico è sbagliato, io sono sbagliata.
Questa è la testa del mostro carceriere che si chiama insicurezza, e che paralizza migliaia di donne di ogni età, colore e livello sociale e culturale senza distinzione: è una sottile bugia trasversale ripetuta così a lungo da aver assunto il sapore di verità, che è in grado di farci tornare volontariamente dietro le sbarre credendo sia l’unico posto che ci è dato di occupare.
Il dubbio è un’energia sottile e insidiosa, che come un serpente silenzioso si insinua fra le piccole conquiste dell’anima, raggiunte ogni volta che la donna si fida di se stessa, e uccide ogni scintilla di vitalità e di felicità inducendola a retrocedere. Il dubbio di sé la deruba del potere, convincendola ancora una volta di essere una creatura debole e in balìa di forze esterne che è meglio non contrastare, e la riporta a tornare sui suoi passi rinunciando a quell’espansione che tanto desidera e merita per paura di non averne diritto.
Non meravigliano allora il numero di donne in sofferenza fisica o psichica, il tasso di depressione, le esplosioni di rabbia incontrollata, o più banalmente i livelli di insoddisfazione, auto-colpevolizzazione e autocommiserazione.
Darsi il permesso, essere libere